Oltre il Visibile

Scienza ed arte. Forse le massime creazioni dell’uomo. Esse testimoniano un desiderio di vedere oltre il visibile, e rappresentano le vette più alte delle nostre visioni, oggettiva e soggettiva. Ma benché scaturiscano da una stessa fonte – l’attenta osservazione delle cose – evocano differenti teorie sul mondo: qual è il suo significato, quali sono le sue connessioni interne, che cosa dovremmo considerare importante.

La scienza dipinge un’immagine impersonale e oggettiva del mondo, deliberatamente priva di un “significato”, parlandoci delle origini e dei meccanismi della vita, ma senza rivelarci nulla sulle gioie e sui dolori del vivere. Al contrario, le arti creative hanno codificata in sé l’antitesi della visione scientifica del mondo: una libera celebrazione di quella soggettività che ci distingue dal resto del mondo animale: una manifestazione che appartiene solo alla mente umana.

Là dove la scienza ha progredito cercando aspetti in comune, regolarità e modelli, l’arte ha celebrato la diversità ed ha resistito ai tentativi di incapsulare la propria attività in regole e formule. Essa è la manifestazione più chiara dell’imprevedibilità e dell’asimmetria della natura. D’altra parte, mentre la scienza, negli ultimi tempi, ha allargato i propri orizzonti passati spingendosi oltre l’ordine e la simmetria per abbracciare la diversità e l’imprevedibilità, l’arte deve ancora esplorare tutta la potenzialità insita negli aspetti in comune e nelle regolarità, quali fattori unificanti nell’interpretazione della creatività umana.

Così come la scienza ha cominciato a comprendere la necessità di riconciliare nella propria concezione della natura il fatto che essa è al tempo stesso semplice e complessa, allo stesso modo l’arte dovrà sempre più ispirarsi alla consapevolezza delle regolarità della natura. Oltre che alla collezione di esempi della diversità, dovrà tendere alla piena accettazione della coesistenza tra le diversità ed un comportamento universale.

Un esempio di questa consapevolezza sta nel constatare come l’arte non miri solo alla bellezza, ossia alla “diversità per eccesso”: piuttosto a volte se ne serve, mentre in altre occasioni si serve della bruttezza – cioè della “diversità per difetto” - al fine, sempre e comunque, di puntare alla conoscenza ed alla verità. In effetti, spesso non occorre attribuire nessuna rilevanza al particolare soggetto rappresentato in quanto tale, ma a come esso è rappresentato. Rembrandt esprimeva i suoi sentimenti più profondi altrettanto bene quando dipingeva la carcassa di un bue appesa nella bottega di un macellaio e quando rappresentava la crocifissione o la sua amata.

 

 Tuttavia, Per molti secoli l’arte occidentale si è caratterizzata per una netta separazione tra l’osservatore e l’oggetto osservato, sulla scia di correnti filosofiche imperniate sulla convinzione che la natura  abbia riservato all’uomo il ruolo di spettatore degli eventi del mondo esterno, con una netta separazione tra colui che percepisce e ciò che è percepito.

Viceversa, in molta arte orientale lo spettatore non è fuori del quadro, ma giace quasi in maniera ambigua all’interno del paesaggio. Questo nesso contemplativo tra osservatore e ciò che è osservato – tipico ad esempio della classica paesaggistica cinese – si traduce nell’appiattimento delle prospettive, così fortemente enfatizzate da molta arte occidentale, e valorizza la nostra funzione di mediatori della bellezza naturale, non limitandosi alla semplice celebrazione della capacità dell’uomo di replicarla in un elemento statico. Quest’enfasi posta sull’atto della osservazione ha una valenza notevole: basti pensare che mentre un’opera d’arte occidentale rimaneva sempre esposta, una delicata serigrafia orientale poteva essere srotolata, all’occorrenza, per una tranquilla meditazione solitaria.

L’immagine occidentale della mente, separata dal corpo, che percepisce il mondo esterno senza alcun disturbo, fu oggetto di estremo interesse da parte del filosofo tedesco Immanuel Kant (diciottesimo secolo).  Da un lato, Kant condivideva l’idea che esistesse un mondo “reale” che la mente poteva descrivere. Dall’altro, andò sempre più convincendosi che in realtà la mente umana possiede degli scomparti, o categorie, in cui devono essere inserite le nostre percezioni del mondo. A causa di questa “organizzazione” dell’informazione non ci sarà mai possibile conoscere veramente le “cose in sé”, bensì solo una versione adattata – e forse distorta – così come risulta filtrata dal nostro apparato concettuale. In pratica, Kant considerava gli uomini come osservatori del mondo, ai quali è negato l’accesso alla vera realtà, che è e resta indipendente dall’osservatore.

Sulla contrapposizione tra realtà vera e realtà percepita esistono due correnti di pensiero. Da un lato, i “realisti” considerano ininfluente l’effetto filtrante operato dalle categorie nella fase della conoscenza della “vera” realtà esterna. All’altro estremo, gli “antirealisti” negano la afferrabilità – se non in forma distorta – della vera essenza della realtà. Naturalmente, molte sono poi le posizioni intermedie, che si differenziano per il diverso peso assegnato alle distorsioni implicite nel processo cognitivo.

Non c’è dubbio che la progressiva perdita di universalità delle leggi newtoniane - che, fino a buona parte del diciannovesimo secolo, affermavano con estrema certezza la perfetta armonia delle leggi della natura rispetto ad uno schema univoco e preordinato da una divinità legislatrice – ha contribuito sempre di più a spostare l’ago della bilancia a favore dell’antirealismo o, comunque, verso il legittimo dubbio che questi leggi siano imposte al mondo dalle nostre categorie di pensiero. Esse potrebbero non riflettere necessariamente la vera natura delle cose. Sempre più si è passati dal credere nell’esistenza di un sistema ottimale di valori – in analogia con la natura incontrovertibile della geometria euclidea – alla convinzione che possono esistere un’infinità di schemi coerenti di ragionamento logico che possono spiegare la realtà apparente.

La scoperta di come nemmeno la geometria euclidea fosse assoluta ed il progressivo sviluppo delle geometrie non euclidee hanno via via favorito un clima generale di relativismo, nel cui ambito molti movimenti artistici hanno sviluppato le tendenza – in molti casi estrema – ad abbandonare gli schemi di rappresentazione classici, a favore di composizioni sempre più astratte e proiettate alla manifestazione visiva di mondi non visibili tramite le nostre categorie di pensiero.

Così, scienza ed arte si sono allontanate l’una dall’altra. Più la scienza ha avuto successo nella sua ricerca di una spiegazione del visibile per mezzo delle leggi invisibili della natura, più l’arte è divenuta soggettiva, metaforica, astratta, ed ha abbandonato la rappresentazione realistica della realtà. Ha, quindi, esplorato altri mondi, lasciando alla scienza il compito di occuparsi di questo.

D’altra parte, quale maggiore potere ha un uomo, che il dominare se stesso e la propria creatività, servendosene con la sicurezza di chi è conscio dei mezzi a disposizione, senza con questo rinunciare alle languide malinconie dell’arte? (Pensiero del grande zot).
                                                                                               
Roberto Gismondi

 

 

Ispirato da: John D. Barrow, L’universo come opera d’arte. La fonte cosmica della creatività umana. Superbur scienza, 2002.

 



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