Pensare il nulla

Pensare il nulla è precisamente ciò che, secondo la tradizione metafisica, non va fatto. Non va fatto perché non è possibile farlo. Pensare il nulla è cadere in contraddizione, è pensare qualche cosa, quindi attribuire l'essere a qualche cosa che non è. Nella misura in cui io dico che il nulla non è o che il non essere non è, già entro in contraddizione perché attribuisco qualche cosa, sia pure il non essere, a qualche cosa che assolutamente non è, non essere stesso.

Ed è l'idea profonda, l'idea che sta nel cuore del pensiero di Parmenide, il vero padre della metafisica occidentale: tu non penserai il nulla. Questa proibizione di pensare il nulla, la ritroviamo, via via, in tutta la storia della filosofia. Platone dimostra l'impossibilità di pensare il nulla in quanto nulla. Il nulla può esser pensato soltanto come finzione, solo per analogia, serve per spiegare ciò che altrimenti non potremmo spiegare, cioè la molteplicità, quindi, in definitiva, il divenire.

Ma, assolta questa funzione, del nulla non ne è più nulla, anche per la  scienza, nel cui ambito si pensa ciò che è, si sperimenta ciò che è, ma lasciando ciò che non è fuori del campo della sperimentazione possibile.

Dato che il nulla è il grande “assente” della filosofia occidentale, è chiaro che l'ontologia del nulla non può essere cercata che negli episodi marginali di questa storia della filosofia. Dunque, non è stata elaborata una vera e propria ontologia del nulla.

Ma le tracce sono importanti:  Plotino sostiene che il nulla è al di là dell'essere, anzi ne è il fondamento, il non essere è il fondamento dell'essere e dunque converte l'essere nella libertà. Troveremo questa stessa idea nei mistici, che arrivano a identificare Dio con il nulla e troveremo quest'idea nei romantici, i quali cercheranno di elaborare una vera e propria ontologia della libertà, cioè una concezione dell'essere come libertà piuttosto che come necessità, su base estetica.

Infatti, l'arte è quella che ci rende evidente il paradosso per cui l'essere, la verità dell'essere è, ma è sempre altra da sé. Le opere d'arte di che cosa parlano, se non del realismo dell'essere attraverso schemi figurativi profondamente irreali?

Forse, conviene accettare l’approccio metafisico proposto da Severino, secondo cui il prototipo di ogni errore filosofico sta nella tesi che il nulla “è”, dato che da questo primitivo errore deriva la follia di credere che le cose vengano dal nulla e finiscano nel nulla.

Ma, in realtà, anche rispetto al nulla Oriente ed Occidente si scontrano e, in un certo senso, si rivelano complementari.

Già oltre duemila anni fa la cultura indiana possedeva una ricca rete di concetti del “nulla” assai in uso comune. Agli indiani va attribuita l’introduzione del numero “zero” nella matematica: la creazione di un numerale per indicare una quantità nulla o uno spazio vuoto nel libro mastro di un contabile fu un passo compiuto senza bisogno di ridefinire parti significative di una più vasta filosofia del mondo. Rispetto alla stessa tradizione ebraica - che considerava il vuoto come uno stato da cui rifuggire, in quanto stato preesistente alla creazione ed alla stessa parola di Dio – le tradizioni religiose indiane erano più in sintonia con la sensibilità mistica e accettavano il concetto di non essere mettendolo sullo stesso piano di quello dell’essere.

Così come molte altre culture orientali, quella indiana considerava il nulla come uno stato dal quale qualsiasi cosa poteva essere venuta ed al quale poteva ritornare: anzi, queste transizioni potevano verificarsi molte volte, senza inizio e senza fine.

Mentre le tradizioni religiose occidentali cercavano di rifuggire dal nulla, l’uso del simbolo puntiforme dello zero negli esercizi di meditazione mostrava come uno stato di non essere fosse per i buddisti e gli induisti qualcosa da ricercare attivamente al fine di raggiungere il Nirvana: l’unità del cosmo.  

La stessa arte islamica ci mostra come i musulmani celebrassero l’infinito laddove i greci lo temevano. Essi vedevano il vuoto come uno spazio che li sfidava a riempirlo. Nessuno spazio libero poteva essere lasciato vuoto: fregi e superfici venivano riempiti di intricati arabeschi. Lo stesso storico dell’arte Gombrich spiega con l’horror vacui l’impulso a decorare, riempiendo lo spazio e creando legami in una rete di crescente complessità, dove vuoto ed in finito si fondono in un tutt’uno.

E, su questo piano, si innesta la convinzione estrema tratta dal Libro tibetano dei morti, secondo cui tutti i fenomeni concreti sono falsi e irreali, simili ai miraggi, non permanenti né liberi da mutamento. Che si ricava dalle passioni? Che si ricava dall’odio e dalla paura?  E’ voler credere nell’esistenza di ciò che non esiste. Tutte queste sono proiezioni della mente, non si manifestano in questo modo dall’esterno, poiché la mente stessa è illusoria e non esistente fin dal principio.

Dunque, il contrasto tra essere e nulla scompare nel momento in cui si prende coscienza che la realtà è una proiezione illusoria del nulla e, quindi, essa stessa non è.


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Il vuoto è nulla?

La questione dello spazio vuoto fu oggetto di congetture già da parte dei filosofi greci.Democrito, nel V secolo a.C., fu il primo a ritenere che la materia fosse costituita da atomi, elementi indivisibili che si muovono nel vuoto. Centocinquant’anni dopo Epicuro sosteneva che, senza il vuoto, “i corpi non avrebbero dove stare e muoversi, eppure vediamo che si muovono”, mentre Aristotele era di parere opposto: “natura abhorret a vacuo” (la natura ha orrore del vuoto). Secondo lui l’assenza di materia non avrebbe invece permesso il movimento, per cui la natura avrebbe impedito che questa condizione si realizzasse. La teoria aristotelica del horror vacui fu generalmente accettata fino al XVII secolo, alla nascita della scienza moderna.

 

Il primo a mostrare che il vuoto si poteva creare fu Evangelista Torricelli, nel 1644. Egli riempì di mercurio un tubo chiuso ad una estremità e lo rivoltò con l’estremità aperta in una vaschetta piena dello stesso metallo. La colonna di mercurio si abbassò rimanendo però più in alto del livello del metallo nel contenitore. Misurando l’altezza della colonna, Torricelli inventò il barometro, ossia un modo per misurare la pressione atmosferica, mentre lo spazio che era rimasto alla cima del tubo, privo di materia visibile, fu da lui interpretato come una regione di vuoto.

 

Negli anni successivi gli esperimenti in questo senso furono numerosi, a partire dalle conferme alle ipotesi di Torricelli da parte di Blaise Pascal ai celebri “emisferi di Magdeburgo” di Otto von Guericke. In quest’ultima spettacolare esperienza realizzata nel 1657, il borgomastro di Magdeburgo aspirò l’aria da due semisfere con una pompa di sua invenzione. I due emisferi rimasero incollati l’uno all’altro con una forza tale che neanche quattro coppie di cavalli che tiravano da ogni parte riuscirono a staccarli. La forza che li teneva uniti in realtà non stava nel risucchio del vuoto come pensavano gli aristotelici, ma nella pressione dell’aria che spingeva solo sulla superficie esterna della sfera e non anche su quella interna. Altri esperimenti dell’epoca furono meno spettacolari ma forse più ricchi di nuove informazioni. Ad esempio, portarono alla scoperta che nel vuoto si trasmette la luce ma non il suono.


I fisici oggi definiscono il vuoto come ciò che rimane in una regione di spazio quando essa è stata svuotata di ogni cosa che possa essere rimossa con mezzi sperimentali.

Quando tutta la materia è stata tolta, lo spazio rimane “pieno” di radiazione elettromagnetica. Una parte della radiazione è termica, legata cioè alla temperatura, e può essere eliminata con il raffreddamento, ma un’altra componente è intrinseca al vuoto e non può essere soppressa: è la cosiddetta “energia di punto zero”. Dunque, il vuoto è alla fine più pieno di quello che sembrava.

Ma una presentazione completa delle idee oggi accettate sul vuoto deve includere i risultati della meccanica quantistica, la teoria, elaborata negli anni ’20 del XX° secolo, che descrive il comportamento delle particelle alla scala atomica.

 

Secondo questa teoria le grandezze fisiche hanno l’inevitabile tendenza a fluttuare, a non assumere cioè un valore definito. Questo fatto è determinato dal famoso principio di indeterminazione elaborato da Werner Heisenberg, che prevede che non si possano conoscere contemporaneamente posizione e velocità di una particella: quanto più esattamente si conosce l’una, tanto meno esattamente si conosce l’altra. Una relazione analoga vale per il tempo e l’energia: sapere con precisione la durata di un fenomeno fisico impedisce di conoscerne con esattezza l’energia, e viceversa.

 

Deve quindi esistere un’energia residua nello spazio vuoto: infatti per essere certi che quell’energia sia nulla, si dovrebbe farne delle misure per un tempo infinito. E, data l’equivalenza di massa ed energia espressa dalla celebre equazione di Einstein E=mc2, l’energia del vuoto deve essere in grado di creare particelle. Si tratta di coppie particella-antiparticella che continuamente appaiono, si separano, si ricongiungono e si annichilano in un intervallo di tempo dettato dal principio di indeterminazione. Queste particelle sono “virtuali”, perché a differenza di quelle reali non possono essere osservate direttamente tramite strumenti come i rivelatori di particelle, ma i loro effetti indiretti sono stati verificati in vari modi, e confermano la presenza dell’energia del vuoto. Così si può tornare in qualche modo a parlare di horror vacui, anche se in un senso diverso da quello aristotelico.

 

Una scoperta fondamentale della fisica moderna è proprio questa non vuotezza del vuoto, che in realtà  contiene un numero illimitato di particelle che vengono generate e scompaiono in un processo senza fine. Questa evidenza conferma le parole del saggio cinese Cgang Tsai, secondo cui quando si conosce che il Grande Vuoto è pieno di ch’i, si comprende che non esistono cose quali in non-essere.

 

 

 

 

Il nostro vuoto quotidiano

 

Dunque il vuoto, inteso come assenza di materia e radiazione, è impossibile da ottenere. Ma tentare di arrivarci il più vicino possibile è fondamentale per capire le proprietà della materia proprio a livello delle particelle. Questo oggi viene fatto nei grandi acceleratori dove fasci di particelle vengono fatti scontrare ad altissime velocità ed energie per studiare i prodotti delle collisioni. E naturalmente questi proiettili non devono trovare nessun ostacolo lungo il loro percorso, per ottenere le migliori condizioni sperimentali. Per questo nei maggiori centri di ricerca, all’interno dei tunnel in cui passano le particelle, la pressione raggiunge un decimillesimo di miliardesimo di quella atmosferica (10-13 volte inferiore), mentre il record ottenuto in apparati sperimentali è di un centesimo di miliardesimo di miliardesimo (10-20 volte) della pressione dell’atmosfera.

 

Nella vita quotidiana, a noi sembra che il vuoto non esista, che tutto sia in qualche modo pieno. Eppure “ciò che non c’è” fa parte della struttura stessa della materia. Tutte le cose che ci circondano, anche le più solide, come una pietra o un diamante, o la Terra stessa, sono in realtà uno spazio vuoto disseminato di nuclei e di elettroni, separati fra loro da enormi intervalli.

 

Molte sono le tecnologie presenti oggi nelle nostre case che sono possibili grazie al vuoto. La più comune è senz’altro la lampadina elettrica: all’interno del suo bulbo di vetro vengono tolti i gas presenti nell’aria, in particolare l’ossigeno, in modo che non sia possibile la combustione del filamento incandescente. Anche le lampade al neon sono prima svuotate dell’aria per poterci mettere dentro solo il gas che produce la luce.

 

Il tubo catodico di un televisore si trova ad un decimiliardesimo della pressione atmosferica. Questo permette agli elettroni che vengono “sparati” sullo schermo di arrivare a destinazione senza incontrare ostacoli.

 

Ma i microchip che permettono al computer di elaborare i dati, hanno anch’essi bisogno del vuoto durante il loro processo di fabbricazione. E microchip si trovano ormai anche nelle lavatrici, negli ascensori e nelle automobili.

 
 
Roberto Gismondi

 

 

 

 

 


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