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Un pomeriggio incontenibile.

Tre anni fa, un giorno di fine agosto in Sardegna, al mare, al caldo. Verso le tre del pomeriggio un cielo terso aveva lasciato il posto a una nuvola sempre più nera, che un po' per volta si era estesa come una gigantesca macchia di petrolio al contrario, invece che annerire il mare aveva scurito il cielo e reso verdissimo il mare. Però non si decideva a diventare nera fino in fondo e lasciava all'orizzonte una striscia chiarissima, come una pennellata bianchissima, dietro la quale sfuggivano riflessi dei raggi del sole.

La nuvola non era arrivata da sola, ma si era portata dietro, come compagno di viaggio, un silenzio irreale, quello che di solito prelude a temporali roboanti e burrascosi. Eppure continuava a non succedere niente.

Io non riuscivo a decidermi se stare nell'acqua, in quell'acqua verde, o se tornare in fretta a casa per non rischiare di essere sommersa da una probabile pioggia che di lì a poco si sarebbe riversata sulla spiaggia e nei dintorni. Dopo una serie di indecisioni che mi portavano continuamente verso l'acqua, mi ero tranquillizzata mettendomi a pancia in su proprio nell'acqua, guardando per aria la nuvola nera e galleggiando in questa sorta di piscina, peraltro calmissima e a quel punto per niente turbata di quanto stava per succedere.

Ero irrequieta solo perché avevo la netta sensazione di poter abbracciare con gli occhi uno spettacolo straordinario e nello stesso tempo irraggiungibile. Ho fatto esperienza di cosa significhi essere umani di fronte alla natura: altro che cellulari, automobili scattanti e aerei supersonici. Piccoli, siamo piccoli, sorpresi, fragili e in grado non di comprendere ma di osservare, di catturare un piccolo e nello stesso tempo per noi enorme fotogramma di quello che un evento naturale ci mostra, sornione e potente, più di qualsiasi tecnologia mai creata.

Quello pensavo mentre galleggiavo e guardavo il nero. E poi finalmente mi ero risolta a uscire dall'acqua e con molta più calma avevo cacciato nella borsa da spiaggia asciugamano e ciabatte e a piedi nudi mi ero avviata nella pineta.

Oltre la fila di alberi c'era uno stagno ormai secco, molto ampio, che andava attraversato. Ci avevo camminato in mezzo per giorni e giorni, ogni mattina e ogni sera, persa nei miei pensieri, tutt'al più consapevole di dover passare in una landa desolata sotto un sole impietoso. Quel giorno lì invece, la nuvola nera, quasi per paradosso col suo colore, aveva accentuato la luce intorno e lo stagno improvvisamente mi era  apparso come un gigantesco lago di terra arsa e rossastra, sul quale correre, a braccia aperte ridendo. Era un richiamo troppo forte.

E allora, lasciata la borsa lì da qualche parte, avevo cominciato a correre, in mezzo, ai lati, giocando a fare l'aeroplano a braccia aperte, e non riuscivo a smettere di ridere. Mi sono fermata solo quando sono rimasta senza fiato, e mi sono lasciata cadere sulla terra, accorgendomi solo in quel momento che avevo perso il pareo che mi ero legata intorno ai fianchi.

Me lo ricordo quel giorno, anche se non ero ancora riuscita a "dirlo", perché non ho mai trovato le parole degli umani. Quel giorno lì mi sono sentita albero e terra, acqua e aria. Rinunciando per un momento ai pensieri umani, sono stata lupo e insetto. Nell'acqua e nello stagno secco.

Gennaio 2004
Elena Tonus


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