L'Orgamo

Fine anni settanta, lezione di pianoforte a casa dell’insegnante, svogliatezza, meccanicità, non capivo come avrei  dovuto suonare, non capivo perché dovevo alzare la mano destra ad una pausa. Io la musica ero abituato a “utilizzarla” da solo, sentivo le cose e le rifacevo, così senza tante scale ed arpeggi, a che servivono le scali e gli arpeggi? A che serviva alzare quella mano? Ero li solo perché i miei genitori desideravano esplorare e indirizzare quelle mie capacità spontanee di suonare le cose senza conoscere la musica, ed io non ricevevo alcuna soddisfazione apparente da queste lezioni.

La casa dell’insegnante di pianoforte, moglie di un grande organista, prevedeva nella sala un bell’organo a canne che imperava in un angolo; la vista di questo strumento, che di solito è collocato solo nelle chiese, mi aveva più volte incuriosito, incuteva rispetto, era presente e dava alla sala una solennità particolare.

Un giorno il maestro aprì l’organo e cominciò a suonare un brano di Bach, io fin dalle prime note ho avuto una sensazione indescrivibile, quel suono, quella musica, avevano su di me un effetto dirompente, non riuscivo a capire ed ero piacevolmente disorientato. Era successo tante volte che mi mettessi ad ascoltare un organo in chiesa ma non avevo mai avuto un impatto così grande. Forse il fatto di “vedere” le note che dallo spartito, tramite l’esecuzione magistrale dell’artista, producevano quell’incanto mi ha assolutamente affascinato, ho detto chissà se io… chissà se potrei… e quindi ho materializzato quell’esecuzione come un qualcosa che in futuro, con studio e fatica, avrei potuto, chissà, rifare anch’io. Era scattata la molla, una voglia immensa di poter anche solo provare, è arrivata la consapevolezza, è arrivato l’obiettivo, volevo cercare di riprodurre “quello”.L’occasione è arrivata quando mi sono messo a disposizione per accompagnare un piccolo coro parrocchiale ; eccolo qua l’organo, le tastiere, i pedali, le canne i registri… che fare? Ore ed ore in chiesa, sudore, stanchezza, niente affievoliva la voglia di riprodurre, oltre ai brani liturgici del coro, anche quei corali, quei preludi, quelle fughe e senza una guida era senz’altro difficile arrivare a qualcosa di buono, di presentabile. Comunque la voglia di fare mi ha spinto ad imparare alcuni brani che mi davano una soddisfazione enorme, ma suonavo senza una impostazione corretta, tutto all’impronta senza uno schema preciso, “rifacevo” ancora una volta quello che sentivo nei dischi ma senza una guida. Dopo vari anni di studio errato da autodidatta, ho trovato un insegnante formidabile, un Francescano, mi ha ingaggiato per accompagnare il suo coro durante i concerti, mi ha visto suonare e mi ha detto: “bene, ma la tecnica è tutta da rifare…”, mi ha messo alla prova, ha corretto la posizione dei piedi, ha corretto la posizione delle mani, ogni settimana mi faceva fare cose che all’apparenza semplicissime si rivelavano poi piene di trabocchetti, mi ha detto poi che le cose che avevo imparato le avrei rifatte dopo molto tempo di studio corretto, una batosta.

In effetti quando sono arrivato a rifare quei preludi, quei corali, in modo più corretto, alzare la mano ad una pausa era una cosa che facevo io spontaneamente, era il respiro della musica, tutte quelle scale, arpeggi,  indicazioni che prima sembravano sterile nozionismo avevano assunto un nuovo significato, erano parte della musica, stavo finalmente imparando.

Con l’esperienza dello studio mirato, spesso, durante le mie esecuzioni, ho ritrovato quell’emozione della prima volta, a casa dell’insegnante, quando quelle note si libravano nell’aria, con la differenza che ora posso io stesso riprodurle, con umiltà, ma con grande soddisfazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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